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Palermo, Marong si racconta: “La mia partita contro la povertà”

Il difensore rosanero arrivato dal Gambia attraverso la Libia parla della sua storia, del suo viaggio e delle sue speranze. A raccogliere le sue parole l’edizione palermitana di Repubblica

Aspetta il suo turno per esordire in rosanero e nel frattempo non smette di imparare Bubacarr Marong, difensore centrale del Palermo nato con il nuovo millennio il 10 gennaio del 2000. Sa che passa anche da questa attesa il suo sogno di diventare un calciatore professionista. Un obiettivo chiaro per aiutare sua madre Awa Kanyi, sua sorella Mariama e i suoi due fratelli Lamin e Sulayman a vivere una vita dignitosa in Gambia. La partita più importante che sta giocando Bubacarr Marong è contro la povertà, soprattutto dopo la morte del padre Lamin. A raccogliere le sue parole nei giorni scorsi l’edizione palermitana di Repubblica.

Marong, cos’è per lei il calcio?

È il mio tutto. Sono arrivato in Italia per giocare a calcio. Non so fare altro che giocare a calcio. Avevo sei anni quando ho iniziato in Gambia giocando per strada a Sanchaba“.

Qual è il primo ricordo che le viene in mente di quando era piccolo?

Stavamo delle ore a giocare. Partite infinite. Poi una volta degli osservatori mi hanno notato. Con il passare del tempo ho capito che se volevo pensare davvero al mio futuro sarei dovuto andare a giocare in Italia. Ho parlato con mia madre e le ho detto che per fare le cose seriamente sarei dovuto partire. È sempre stato il mio sogno quello di fare il calciatore e ho sempre pensato che ce l’avrei fatta“.

Come è arrivato in Italia?

La strada per arrivare qui è molto difficile. Tutto parte in Libia (si rabbuia di colpo, ndr). Un mio compagno di squadra è morto in Libia, in quei campi succede di tutto. Penso sempre a lui. Il ricordo di quello che gli è successo mi torna sempre in mente. Io ho evitato il campo perché appena sono arrivato in Libia ho trovato subito un lavoro. Non avevo tutti i soldi che mi servivano per il viaggio e dovevo trovarli in fretta. Ho lavorato tre mesi in uno stabilimento della Pepsi. Spostavo casse piene di bottiglie per tutto il giorno ogni giorno, dalle 8 del mattino fino alle 7 di sera. Non pensavo ad altro se non a mettere insieme i soldi per partire. Il viaggio mi è costato 30 mila Dinar (19.400 euro circa, ndr)”.

Che ricordi ha del viaggio?

“Cerco di non averne. Non è stato bello. Però il nostro barcone è rimasto a galla. Siamo arrivati a Trapani e ci hanno portato vicino Carini all’ex Hotel Azzolini (dove c’era un centro di prima accoglienza per minori, ndr) da qui mi hanno portato a Piana degli Albanesi e poi a Palermo al Centro Astalli. Sono arrivato nel 2016 e avevo paura”.

E il calcio le ha dato coraggio.

“A Carini con gli altri ragazzi del centro giocavamo a calcio. Mi ha visto Totò Tedesco e gli ho chiesto di trovarmi una squadra. Lui mi ha aiutato, mi ha portato da suo fratello Giacomo, ma ho fatto solo due giorni di allenamenti perché non potevo giocare. Ho parlato di nuovo con Totò e mi ha portato al Ribolla, ho fatto un anno di allenamenti con loro, ma c’era il solito problema di documenti e non mi potevano tesserare. Ero rifugiato e minorenne. Ora è tutto risolto, ho il permesso di soggiorno. Nel frattempo ho incontrato Paolo Calafiore, l’allenatore della Parmonval che mi ha fatto fare il mio primo campionato in Italia. Se continuo a vivere il mio sogno è grazie a loro”.

Il Palermo per lei è un altro passo di avvicinamento al suo sogno?

“Le cose di campo sono le stesse, ma gli allenamenti sono più impegnativi. Non mi lamento, questo è quello che voglio. Mi sento già un professionista e riesco anche ad aiutare la mia famiglia. Vorrei diventare un grande giocatore, come Koulibaly del Napoli. Anche se alcuni dei ragazzi che giocavano con me in Gambia, come Ebrima Colley o Musaw Barrow, dicono che sono come Van Dijk del Liverpool”.

Quanto le manca la sua famiglia?

“Tantissimo. Parlo spesso con mia madre e mio fratello. Non penso di tornare in Gambia, vorrei che loro fossero qui con me. Sono partito perché siamo poveri. La vita in Gambia non è male, ma mio padre è morto e fa tutto mia madre, paga la scuola dei miei fratelli e di mia sorella. Quando sono partito le ho detto che se riuscirò a diventare un grande calciatore posso risolvere tutti i problemi. Lei non voleva: passare dalla Libia fa paura a tutti. Ma le ho detto che dovevo farlo per me e per tutta la famiglia. Già ora riesco a dare una mano a casa ed è una cosa che mi gratifica. È bello”.

A Palermo riesce a sentirsi a casa?

“Qui ho tutto. Mi piace Palermo. I compagni di squadra mi fanno stare bene, vivo a Mondello, non ho ancora la patente. Il mio vicino di casa è Roberto Crivello, se ho bisogno di qualcosa lui c’è sempre. Anche Andrea Siracusa (il team manager, ndr) mi accompagna spesso al campo. Lui ormai conosce i miei gusti musicali e mi accontenta facendomi ascoltare hip hop e reggae, Tupac e Bob Marley. Anche i magazzinieri mi vogliono bene, anche se non capisco tutto quello che dicono, soprattutto quando parlano in palermitano”.

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